Dell’idea inespressa e del tutto scartabile

intera
Dell’idea scartata. Olio su carta, 200×200 cm, 2016

Questo progetto non esiste.
Non è mai esistito se non nell’intenzione di esistere e al mio alternare euforia insensata e totale annichilimento deve la sua inesistenza.
Questo progetto non è un progetto. E’ un abbozzo scartato. Perché sempre uguale a se stesso nelle sue piccole, quotidiane, evoluzioni ed involuzioni; ridondante, malinconico. Come un’idea che mi perseguita e che non sa neanche spiegare le sue ragioni. E forse non ha proprio ragioni, si basa su premesse irrazionali, caotiche e indistinte: cercarne di diverse significa smantellare pezzo per pezzo, ancora una volta, un organismo simbiotico senza riuscire ad analizzarlo, eppure continuare a demolire e scavare e sottrarre indefinitivamente. Sottrarsi alla consequenzialità logica e all’assillante ricerca di autogiustificazione, per cercare di smettere di sminuire percorsi e persistenti seppur fragili strutture, di frammentare e negare legami, affetti, identità, volontà.

Tutto è scartabile, perché inevitabilmente perfettibile, fallibile, quasi sempre inappropriato, mancante; tutto è tale se non per qualcuno che riesce ad amarne l’insieme, la totalità dei segni tracciati, di quelli assenti, dei solchi e delle concrezioni; tutto è deformabile, mediocre, se non da un certo punto, o attraverso un determinato sguardo, o in un dato, fatidico istante… che già è passato, che fatico a ricordare, ma c’è stato, di questo sono sicura.
Tutto può apparire meraviglioso e subito, o talvolta nel mentre, insignificante. E’ processo artistico lo stesso sviluppo deformante, il fallimento e la frustrazione, l’insistere di un’idea nell’insensatezza del suo essere e nella fragilità e caducità di ciò che la supporta. Certo non c’è un valido motivo per portarla avanti. E non ci deve essere.

Lei è. E rimane a guardarti. Puntualmente ti sveglia al mattino con la sua apprensione, ti ricorda la tua inconcludenza con voce flebile e insistente premura; ti accompagna il giorno con discorsi disarticolati che non si sa come riescano a convincerti, per poi stupirti e confonderti, alla sera, con un improvviso e contagioso entusiasmo per mirabolanti possibilità irrealizzabili, aspettando che tu, lungo tutta la notte, ne ritrovi inevitabilmente l’inconsistenza, i nessi mancanti, le premesse che non tengono. Aspettando che tu ricominci, con il mal di testa del giorno dopo.

Lo stercorario è un animale magico: chi meglio di lui conosce la ricchezza di ciò che è scartato e il potere di ciò che è infinitamente riplasmato e riformulato?
Khepri, dio scarabeo, possa essere simbolo di una quieta accettazione di sé e la sua palla di sterco assomigliare, così nitidamente, ad un sole nascente.

Emilia Maria Chiara Petri

 

 

testo di Andrea Sala

Introduzione

Di cosa è capace un ritratto? Cosa può uno straccio di carta o un lembo di tela su cui è impresso un volto?

Volendo essere sbrigativi e banali diremmo che è in grado di fare apprezzare la fisionomia e l’estetica di un soggetto, il suo portamento e la sua estrazione sociale. Volendo invece scendere di più nel cuore dell’argomento, diremmo che è capace di comunicare percezioni, di stimolare i sensi, di far trasparire il rapporto fra chi sta da una parte e dall’altra del cavalletto. E ancora, diremmo che è in grado di raccontare scene di vita, che siano storie di un attimo durato in eterno o vicende di un’esistenza intera nata e consumatasi in una notte.

Queste caratteristiche sono bene o male percepibili nei ritratti di qualsiasi autore mediocre che la storia ricordi. I grandi artisti, invece, si sono spinti oltre. Essi hanno caricato le loro opere di valori e di idee tanto importanti da essere in grado di farci riacquisire, lentamente e con fatica, “quella realtà da cui viviamo lontani, da cui ci scostiamo sempre più via via che acquista maggior spessore e impermeabilità la conoscenza convenzionale che le sostituiamo”. E se la grandezza dell’arte ci permette di riafferrare la vita reale lo dobbiamo a Modigliani, che ci ha fatto dono dell’assoluta sensualità e della candida purezza della donna, portandone l’anima in superficie attraverso gli occhi; a Boldini e a Klimt, che hanno svelato la vuota finesse dei salotti borghesi e l’hanno tradotta in materia, con strappi laceranti e vorticosi l’uno, con solenni geometrie auree l’altro; a Gericault, che ha innalzato e reso eterna la sofferenza dell’uomo che si rifugia nel vizio, e chissà a quanti altri ancora.

Fragilità

Questa introduzione mi è servita per arrivare a dire che i veri artisti sono riusciti a scavare nell’intimità delle persone con un pennello non solo per portare alla luce la rappresentazione di un volto, ma per arrivare a raffigurare, rendendola così immortale, la coscienza storica del loro tempo, la cognizione inequivocabile del loro presente. Chi guarda un ritratto da loro dipinto si deve sentire come di fronte alla più evidente carta d’identità di quell’epoca, al compendio universale di tutte le persone che quel tempo lo hanno abitato.

Ebbene, questa stessa sensazione, in maniera pressoché inalterata, io l’ho avvertita anche osservando i volti di Emilia. Sento che dentro questi ritratti si trova riflessa esattamente la sensibilità del mio tempo.

Al contrario di quanto annotato inizialmente con gli esempi dei grandi maestri, nei ritratti di Emilia non c’è spazio per far emergere turbamenti psichici, non c’è nessuna predisposizione alla bellezza, nessun tentativo di eroicizzazione. Niente di tutto ciò si nasconde dietro questi volti. Quello che avvicina oltremodo le sue opere alla nostra sensibilità e al nostro spirito è probabilmente la paradossale e incessante cognizione della fragilità e della labilità della vita umana che tutti noi abbiamo. La definisco paradossale perché è proprio l’incrollabilità di questa credenza che ci paralizza nella vita e ci intrappola in un dedalo di pensieri, in uno Scrabble di buoni propositi che vede come unica soluzione la parola défaite, sconfitta.

Probabilmente il messaggio di Emilia è meno drastico di quanto appena detto. Mi piace però pensare i lavori di questa artista in una relazione di continuità con le opere di un altro bolognese, il quale, con la sua delicata poetica delle nature morte e col suo tratto fragile e diafano, ci aveva già avvertito della caducità dell’esistenza umana. Mi riferisco, naturalmente, a Giorgio Morandi.

Il fatto che dei volti umani vengano pensati come scarti, come rifiuti, non fa altro che sottolineare la sostanziale trasparenza di ciascuno di noi rispetto alla vita (fenomeno al quale aderiamo per un finito intervallo di tempo) e la transitorietà e l’inefficacia dei nostri pensieri e delle nostre idee di fronte ad un orizzonte tanto complesso. Questo sentimento di impotenza e di arrendevolezza, più di ogni altro, io sento oggi dominare nella coscienza comune.

Il tempo elastico del dialogo

Scrive Proust nella Recherche:

Il tempo di cui disponiamo ogni giorno è elastico: le passioni che proviamo lo dilatano, quelle che ispiriamo lo restringono e l’abitudine lo colma.”

Trovo affascinate l’esattezza della prima frase:Il tempo di cui disponiamo ogni giorno è elastico”. E’ fondamentalmente una delle poche certezze che abbiamo. Il tempo che quotidianamente ci è concesso subisce delle ipertrofie e dei restringimenti che, probabilmente in maniera meno simmetrica di quanto Proust credesse, rendono il suo scorrere tutt’altro che lineare.

E trovo altrettanto meraviglioso il modo in cui questo messaggio si possa ritrovare pressoché inalterato anche nelle opere di Emilia. L’artista ha deciso di accogliere e di intrappolare il diverso scorrere del tempo nelle profondità delle grinze e delle pieghe delle sue opere, rendendo così le lancette dell’orologio uno strumento indispensabile per la lettura dei suoi ritratti.

Il tempo che si trascorre di fronte ad un’opera di Emilia, infatti, non varia in relazione alla sua bellezza, né tantomeno alle dimensioni o alla qualità della stessa. Varia invece a seconda dell’intensità del dialogo che necessariamente si viene ad istaurare fra di essa e chi la guarda. Con un ribaltamento del punto di vista molto sottile, qualche tempo fa Sgarbi scriveva queste parole:per migliaia di immagini noi siamo trasparenti: ci sono passate davanti senza che ce ne accorgessimo”. Allora il critico voleva sottolineare come le persone generalmente non fossero in grado di instaurare un rapporto di scambio e di dialogo con le opere d’arte, e come non riuscissero a dar vita ad una corrispondenza di amorosi sensi con i quadri e le sculture che si trovavano di fronte. Oggi i volti di Emilia portano vento di rivoluzione, essendo loro, per primi, a volerci indagare, a voler sapere di noi, ad avvertire la necessità di instaurare un confronto.

Lo sviluppo nella terza dimensione, l’odore intenso, viscoso e caricato che emanano, le espressioni così umane e reali, sono tutti fattori che spingono al dialogo chiunque si trovi di fronte a queste opere. E’un dialogo fatto di sguardi e non di parole, naturalmente, ma anche di ritmo e di movimento. I volti di Emilia ti assorbono o ti respingono, quasi fisicamente, in corrispondenza delle forme e dei rilievi che l’opera assume: più le difformità della carta si staccano dalla parete, più ti senti spinto indietro; più le concavità si accentuano, più avverti il bisogno di avvicinarti per indagare in prossimità. E’ una sorta di danza, se non addirittura di duello, di delicato corpo a corpo, fra noi e loro.

Il dialogo ha ragione di esistere soltanto finché si ha una visione integrale del volto, e sfuma in un soliloquio quando il soggetto comincia a frammentarsi.

Accade che, man mano che ci si avvicina al piano frontale dell’opera, il viso si componga. Le pieghe si allineano, i colori si accostano, e il dipinto svela il suo segreto. Al contrario, quando ci si allontana e gli si ruota attorno il soggetto si deforma, subisce menomazioni, si storpia, si imbruttisce, fino ad assumere pienamente le sembianze di un rifiuto, di uno scarto. Ed è proprio in questa particolarità, che è molto più di un semplice gioco prospettico, che si nasconde l’intuizione geniale che guida questo ciclo di opere di Emilia: dimostrare come sia sottile il limite tra un volto dipinto a regola d’arte e un’insieme confuso di segni e colori, come sia labile il confine tra la perfezione e l’insensatezza.

La perfezione esiste, ma non è immediatamente riconoscibile. E’ una voce umile e delicata, che viene quotidianamente sommersa dal frastuono della vita e che va cercata con insistenza fra i fastidiosi chiacchiericci.

La perfezione esiste, basta solo saperla vedere.

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testo di Fabrizio Lollini

La contemplazione della debolezza

“Accade che, man mano che ci si avvicina al piano frontale dell’opera, il viso si componga. Le pieghe si allineano, i colori si accostano, e il dipinto svela il suo segreto. Al contrario, quando ci si allontana e gli si ruota attorno il soggetto si deforma, subisce menomazioni, si storpia, si imbruttisce, fino ad assumere pienamente le sembianze di un rifiuto, di uno scarto. Ed è proprio in questa particolarità, che è molto più di un semplice gioco prospettico, che si nasconde l’intuizione geniale che guida questo ciclo di opere di Emilia: dimostrare come sia sottile il limite tra un volto dipinto a regola d’arte e un’insieme confuso di segni e colori, come sia labile il confine tra la perfezione e l’insensatezza”. Queste righe di Andrea Sala, da cui vorrei partire, dicono già molto dell’ultimo progetto di Emilia Petri Dell’idea inespressa e del tutto scartabile, in cui le opere – alcune nate per vivere in coppia, altre a sè stanti – sono dipinte con la solida e tradizionale tecnica pittorica in cui l’artista ha già dato molte ottime prove, ma su un supporto cartaceo appunto spesso e spiegazzato, reso da bidimensionale (com’è il foglio piatto e passivo) a tridimensionale (pieno di emergenze e attivo), a comporre strutture complesse, deformi e solo apparentemente casuali. Il gioco è, tutto sommato, semplice: trovare come detto una ratio prospettica, per cui gli oggetti pittorici rivelino la loro unitarietà di concezione, e insieme la loro esemplare figuratività, solo da uno specifico punto di vista, distante e frontale, mentre tornino – fuori da quello – a essere ammassi pressoché informi, toccati dal colore quasi da renderli destrutturati à la maniere dei cubisti, privi di un vero soggetto identificabile.

Questo stratagemma tecnico però sottende una serie di riferimenti più profondi, esistenziali. La fragilità della percezione di noi stessi, che cambiamo a seconda degli umori, dei punti di vista e delle circostanze. Il richiamo alla malinconia, vista non nel senso classico del furor dell’eroe, ma come riflessione sul passato e sul futuro, rispetto all’impossibilità di riproporre il primo e di determinare il secondo, che ci va vivere in senso effimero il presente, breve e istantaneo come la visione corretta di queste opere dell’autrice. Ma anche l’instabilità sottesa alla strutture solo apparentemente logiche e razionali, collegata – come dice l’artista – alla volontà di “sottrarsi […] all’assillante ricerca di autogiustificazione, per cercare di smettere di sminuire percorsi e persistenti seppur fragili strutture, di frammentare e negare legami, affetti, identità, volontà”: la frammentazione, verrebbe quindi da dire, come poetica attiva; non dunque come mera impossibilità di conseguire risultati, ma come esperienza piena della propria

conoscenza, che si basa anche su squarci, apparizioni, brevi illuminazioni non coordinate.

Ma anche al di là della lettura personalistica e intima, anche da un punto di vista strettamente stilistico e formale non mancano situazioni di confronto, anche assai alto. L’idea che un’immagine si riveli al suo pieno solo da una determinata angolazione parte ovviamente dall’idea della prospettiva rinascimentale, che si basa sull’unicità del punto di vista rettilineo, semplificando astrattamente la visione binoculare e la convessità del bulbo dell’occhio, oltre che la sua naturale mobilità. I Cristi crocefissi delle cimase dei grandi polittici del Quattrocento (Masaccio, o Piero), se esposti ad altezza uomo, sembrano scorretti e tozzi, con la testa incassata tra le spalle, perché il loro scorcio è realizzato appunto per essere percepito correttamente da una specifica posizione. E nei secoli successivi, il processo anamorfico è noto e praticato in tutta Europa, dal celeberrimo teschio degli Ambasciatori di Holbein della National Gallery di Londra, giù fino alla storia di questa affascinante pratica artistica (qualche volta mero gioco leggero, più spesso pieno di valori simbolici) per come l’ha percorsa Baltrušaitis. Ma se leggiamo in un dizionario, o magari su wikipedia, il lemma anamorfosi, troviamo quasi sempre subito in evidenza la specifica della bidimensionalità: “L’anamorfismo è un effetto di illusione ottica per cui una immagine viene proiettata sul piano in modo distorto, rendendo il soggetto originale riconoscibile solamente guardando l’immagine da una posizione precisa”. Ecco appunto, il piano. Che nelle opere di Emilia Petri si sfasa come detto in una profondità sfaccettata e multiforme, che di lato rivela pattern quasi da concrezione geologica, e raggiunge picchi estremi di invasività di proiezione spaziale – di spessore, per essere brutali – verso lo spettatore, invitandolo a una sorta di percorso iniziatico. Oscillante, circolare, di sbieco, frontale, da vicino e da lontano, alla ricerca quindi della ricomposizione serena dell’immagine del volto dell’artista, ma anche di una ricostituzione sentimentale e di pacificazione.

D’altra parte “da un punto solo si può vedere Dio”: il nostro occhio e la nostra mente cercano sempre il punto di vista perfetto per abbracciare quello che non comprendono. Che sia un’entità religiosa, un concetto, o il volto di un uomo (o di una donna).

 

 

Testo di Emiliano Mazzoncini

Emilia Maria Chiara Petri ha esposto ieri sera allo Spazio Athena a Pistoia, la sua “Dell’idea inespressa e del tutto scartabile”, una personale di pittura veramente interessante .
Sul fatto che l’idea, qualora non venga espressa e rimanga quindi nell’embrione della mente, sia del tutto s-cartabile, debbo soffermarmi un attimo: credo che l’accezione di scartabile non debba essere considerata al pari di “trascurabile”: perché un’idea, anche se non tradotta in pensiero, immagine, suono dovrebbe essere “trascurabile”? Il mondo eidetico ha una funzione ed una vita anche al di là di qualsiasi formulazione e traduzione. No.”Scartabile” mi piace pensarlo proprio nell’accezione letterale: l’opera si apre, si disvela, la si scarta come si farebbe con un cioccolatino. E su questi scarti, su questo scartamento, Emilia dipinge volti, sguardi che si ricompattano dopo una transitoria e momentanea decomposizione .
Perché l’origami è solo una partenza: il piano espressivo dell’artista coinvolge in toto la materia: è come se dicesse, Emilia, perché non lasciare il messaggio espressivo invece che all’oggetto e sull’oggetto ritratto, nella materia stessa su cui si ritrae e lavora?! Ecco perché c’è tanto lavoro, tanta fatica e tanto pathos dietro ogni singola opera. Deformare l oggetto, ritrarvi il soggetto che apparirà esso stesso deformato, ma che si presenterà nella sua piena forza espressiva davanti allo spettatore .
Proprio come la superficie dell’acqua appena smossa con una mano, torna a dare l’immagine ricompattata e ricomposta , ma un immagine che non sarà mai quella di partenza perché nel mezzo c’è stato il “viaggio” dell’artista .

 

 

Articolo di Stefano Di Cecio su Report Pistoia

http://www.reportpistoia.com/cultura/item/38084-dell-idea-inespressa-nascono-le-opere-di-emilia-maria-chiara-petri.html

Dall’idea inespressa nascono le opere di Emilia Maria Chiara Petri

di Stefano Di Cecio

PISTOIA – E’ stata inaugurata ieri sera, lunedì 11 luglio, la personale di pittura di Emilia Maria Chiara Petri allo Spazio Arte Pistoia in via Sant’Anastasio.

Bolognese, 33 anni, autodidatta, porta le sue opere a Pistoia per la prima volta. Un progetto che ha le sue basi in un procedimento artistico vissuto come frustrazione.

Idee che non si sono sviluppate come avresti voluto ma che rimangono lì e conservano una loro validità, un loro senso di esistere. Nonostante siano state scartate, tornano prepotentemente fuori e si sviluppano con un materiale per sua natura fragile, la carta, ma al tempo stesso forte e capace, grazie alle pieghe, al colore, al movimento ora concavo, ora convesso di mostrarsi al pubblico con tutta la sua voglia di esistere.

Ecco che le idee si fanno materia, la carta perde la sua bidimensionalità e si increspa, cresce come l’onda di una mare in tempesta e diventa tridimensionale. Appaiono volti, sguardi di persone conosciute, di persone care che sembrano parlare all’osservatore con un mix di malinconia e nostalgia. Complice la monocromia del blu, o come dicono negli Stati Uniti , di un “feeling blue”, uno stato di melanconia che ha molte cose da dire, da urlare forse.

Alcune forme sembrano chiamarti al loro interno, altre invece si proiettano verso l’esterno con forza e determinazione in un vortice di contrasti e movimento. Si percepisce la fragilità e al tempo stesso la forza dei sentimenti, dell’umana natura, della consapevolezza che niente è per sempre ma che comunque vale la pena vivere fino in fondo.

In ognuna delle opere poi ritroviamo sempre la raffigurazione dello scarabeo stercorario. Ben conosciuto e venerato dagli Egizi, pone il suo seme all’interno di una pallina di sterco, una materiale di scarto appunto, e lo fa rotolare da est a ovest in un movimento di costante rinnovamento.

Ad accompagnare Emilia Maria Chiara un altro artista, il veneto Luca Genovese. Affermato disegnatore di fumetti (Orfani e Dylan Dog di Bonelli solo alcune fra le sue collaborazioni più conosciute) ha collaborato a questa mostra con l’ideazione e la realizzazione di uno specifico e originale origami ispirato alle opere di Emilia Maria Chiara e si trova  in vendita presso la galleria numerato e firmato.

La personale, curata da Carmen Schipilliti, rimarrà aperta fino al 31 di luglio.

 

 

Articolo di Luigi Scardigli su www.megliomeno.com

http://megliomeno.com/index.php/item/283-e-la-caccia-continua

E la caccia, continua

PISTOIA. Parla sottovoce, ma solo perché è timida; adora il blu caldo, o il verde cenere, scegliete voi ed è profondamente convinta che le sue iniziazioni artistiche, prima o poi, prenderanno il sopravvento: se così non fosse, sarebbe un problema. Sopravvive a Bologna, Emilia Maria Chiara Petri, 33 anni – i cui tre nomi saremmo tentati di separarli, ciascuno, da una virgola -, conosciuta poche ore fa, in centro, a Pistoia, con la sua amica Carmen Schipilliti, che la sta ospitando dallo scorso 12 luglio, con le sue creazioni, all’interno della sua cantina artistica, Spazio Arte, in via Sant’Anastasio, a Pistoia. Il suo back ground però non proviene dal Dams: si è laureata in filosofia, testimoniando il proprio percorso di studi con una ciliegina che interessa solo gli addetti ai lavori, circa il rapporto della e sulla verità tra Martin Heidegger e Platone.

L’aula dell’Ateneo però è stato solo un compromesso con il contesto nel quale vive: Emilia (la chiamiamo solo scrivendo il primo dei tre nomi, altrimenti parrebbe una novella) è sempre stata tentata dalla pittura come mezzo privilegiato di espressione e così, da grande, ha voluto che da questo fosse identificata. La mostra pistoiese (che sarà visibile fino al prossimo 21 agosto) è una tappa del suo peregrinare artistico, morale, umorale. Le sue creazioni sono una combine di idee, emozioni, pittura, scarto, rifiuto e resurrezione, perfettamente identificabili in un qualsiasi momento si decida di interrompere la catena disumana. Sono visi accartocciati su loro stessi, sagome facciali dalle quali si può, osservandole perpendicolarmente, intravedere con puntualità e rigore gli occhi, lo sguardo, la sofferenza. Impossibile che su quelle asperità il velivolo possa decollare: Emilia, però, è convinta che anche senza far rullare prepotentemente i motori, l’aereo trovi la forza per inabissarsi verso l’alto e poi planare. Ogni segmento artistico fa parte di un percorso sentimentale che Emilia preferisce custodire nell’enigma delle interpretazioni: non è detto che quello concavo rappresenti dolore, così come non è automatico che il convesso voglia testimoniare felicità, anche se la tentazione di procedere con questo ordine è grandissima. Vi consigliamo, visitando la personale, di provare ad interloquire con ognuna delle creazioni appese alla parete: se doveste riuscire a parlare con una o più di loro, non vi impressionate; nessuna sostanza ottica usata da Emilia per la gestazione delle sue creature ha poteri stupefacenti, a patto che non sottovalutiate, per comodità e paura, il mostro che vi vive dentro e che avete, preventivamente, narcotizzato.